12 Maggio 2023 - 13:00

Gilardino: “Abbiamo fatto passi fondamentali, adesso viene il bello”

post
Attaccante di ruolo in carriera, campione del mondo nel 2006, Alberto Gilardino inizia la sua carriera a fine anni ’90 nel Piacenza, ma passa per squadre come Parma, Milan, Fiorentina e Genoa, chiudendola poi nel 2018 con la maglia dello Spezia. Intraprende poi nel 2019 quella da allenatore nel Rezzato. Dal 2022, allenando prima la primavera e poi la prima squadra, passa al Genoa, squadra con la quale ritrova la Serie A da allenatore. E ora si gode la promozione in serie A: «Durante la stagione ci sono stati alcuni passi fondamentali che ci hanno permesso di pensare positivo. Penso alle vittorie col Frosinone, il Bari, la Reggina e il Cittadella. E decisivo è stato il boato che ha accompagnato il gol del Modena contro il Bari. Sentendo l’urlo della gente la squadra ha avuto una reazione di pancia e di cuore».
Alberto Gilardino, se la professoressa che aveva alla scuola Leonardo da Vinci di Cossato le chiedesse di raccontare in un tema la promozione in serie A col Genoa come inizierebbe?
«Ho vissuto un sogno, spero di non svegliarmi. I desideri diventano realtà certamente se hai la buona sorte dalla tua, però ci vuole anche tanto lavoro. La mia fortuna è stata avere una società che ha creduto in me e mi ha dato un’opportunità importante. Dico la verità, quando mi hanno chiesto di allenare la prima squadra, il primo ad essere sorpreso sono stato io».
Il suo è un mestiere impietoso ma regala anche favole meravigliose: un anno fa di questi tempi stava meditando su un esonero col Siena in serie C e adesso si ritrova in serie A.
«Il calcio è unico, incredibile. Ma se fortemente credi in quello che fai, se hai perseveranza e volontà prima o poi arrivi. Questa stagione straordinaria col Genoa viene a completare un percorso di crescita che ho voluto fare senza prendere scorciatoie. Quando sono partito dal Rezzato qualcuno mi ha preso per matto: un campione del mondo in serie D? Invece era quella la strada giusta».
Ma come è capitato a Rezzato, paesino in provincia di Brescia?
«I proprietari della società erano due fratelli innamorati di calcio. Loro volevano il Gilardino calciatore ma io a giocare non ci pensavo proprio più. E siccome l’allenatore era Luca Prina, biellese come che me, mi sono messo a disposizione come secondo. Volevo capire cosa volessi fare davvero da grande e se quello dell’allenatore potesse effettivamente essere il mio futuro. Quando a Prina è stato chiesto di fare il direttore tecnico, mi hanno affidato la squadra. Con Luca, che aveva vinto un campionato di C con l’Entella, ci sentiamo ancora spesso e ci confrontiamo».
Dopo il Rezzato, la Pro Vercelli e il Siena.
«Esperienze estremamente formative, sono soprattutto gli errori che ti aiutano a crescere. A Siena la proprietà era armena, il primo anno in serie D mi hanno esonerato da primo in classifica. Mi hanno richiamato a sette giornate dalla fine con la squadra a rischio play out e ci siamo comunque qualificati per i play off. Ci hanno ripescato in serie C quando eravamo già in ritiro e con una squadra allestita per la D, così tanti ragazzi sono dovuti andare via e tanti altri ne sono arrivati. Però siamo comunque partiti bene ed eravamo quarti in classifica».
Quest’estate è arrivata la chiamata del Genoa per la Primavera.
«Non ci ho pensato un attimo a dire di sì a Carlo Taldo che mi aveva contattato. L’ho considerato un altro step importante per il mio percorso di crescita».
Poi la chiamata in prima squadra inizialmente come allenatore ad interim.
«Essere un precario non mi ha turbato. Sapevo che alla squadra dovevo dare un’identità forte e che soprattutto i ragazzi andavano responsabilizzati. Ma contemporaneamente dovevo anche creare fiducia e dare ancoraggi positivi, punti di riferimento certi. Creare un’alchimia straordinaria con la nostra gente è stata la pozione magica. E le emozioni che ho vissuto il 6 maggio le porterò con me tutte la vita. Non sarei mai voluto uscire dallo stadio, avrei voluto stare lì a fare festa coi nostri tifosi sino a notte fonda. Ma ci aspettava il giro per le vie del centro sul pullmanscoperto: un altro bagno di folla».
Tra lei e i tifosi, scottati da certi precedenti, c’è stato un tacito patto: nessuna corsa sotto la gradinata col pugno chiuso e nessun coro. Ma una volta raggiunto l’obiettivo ci si è rifatti con gli interessi.
«Giusto così, prima bisogna fare i fatti. E anche da giocatore mi piaceva far parlare i gol».
Quando è stato il momento in cui ha pensato: ce l’abbiamo fatta?
«Durante la stagione ci sono stati alcuni passi fondamentali che ci hanno permesso di pensare positivo e che hanno trasmesso fiducia a tutti: società, squadra e tifoseria.
Penso alle vittorie col Frosinone, il Bari, la Reggina e il Cittadella. E decisivo è stato il boato che ha accompagnato il gol del Modena contro il Bari. Eravamo in un momento di difficoltà, ma sentendo l’urlo della gente la squadra ha avuto una reazione di pancia e di cuore».
Fastidioso questo Bari che non mollava mai.
«Hanno lavorato bene, hanno fatto un cammino importante. Ma noi siamo stati più forti di tutto e di tutti».
Tatticamente la svolta è stato il passaggio alla difesa a tre.
«Credo che un allenatore non debba avere vincoli tattici. Per prima cosa deve capire dove si trova e valutare il materiale umano che ha a disposizione. A quel punto si comincia a lavorare sui concetti e i principi di gioco. Io poi ho avuto la fortuna di avere giocatori pensanti, estremamente intelligenti».
Hanno festeggiato con grande trasporto anche Tourè, che non ha ancora giocato nemmeno un minuto, ed Hefti che è passato dalla Champions alla panchina in serie B. Com’è riuscito a creare un gruppo così unito?
«Ho cercato di coinvolgere tutti. Poi, è normale, che un allenatore è chiamato a delle scelte. E alcune, vi assicuro, sono state molto sofferte. Più ci si avvicinava al traguardo e tanti giocatori non avevano fatto più fatto nemmeno un minuto. Ma un allenatore deve essere forte ed andare avanti con le proprie convinzioni. In questi mesi ho dormito poco, soprattutto nell’ultimo periodo. Tanti pensieri ti girano per la testa. Servono idee e soluzioni ma anche capire come gestire certi rapporti».
Tra i giocatori chi ha avuto la crescita maggiore?
«Mi verrebbe da dire Gudmundsson e poi Frendrup e Vogliacco. Ma questa è stata veramente la vittoria del gruppo e i nostri vecchietti sono stati straordinari».
Ogni giocatore, quando diventa allenatore, ruba sempre qualcosa dai mister che ha avuto in carriera.
«Ho solo l’imbarazzo della scelta. Gasperini è quello che si dice un ‘osso’, dai giocatori pretende molto. Lui nello spogliatoio è tosto e aggressivo, proprio come vuole lo sia la sua squadra in campo. Prandelli a Parma mi ha costruito come giocatore e poi l’ha ritrovato alla Fiorentina. A Bologna ho avuto Pioli. Al Milan Ancelotti che è uno straordinario gestore di uomini, l’ideale per una squadra piena di grandi campioni. E poi c’è Lippi. A tutti noi di quel Mondiale del 2006 ha lasciato qualcosa e non è un caso allora se tanti abbiano poi deciso di fare l’allenatore».
Lei è nato il 5 giugno 1982, il giorno della tripletta di Paolo Rossi al Brasile. Un predestinato?
«Io sono nato al mattino, mio padre al pomeriggio era davanti alla tv. Paolo Rossi è stato unico, manca anche a chi non l’ha mai visto giocare».
Lo sa che la festa è appena cominciata?
«Adesso viene il bello, però non dobbiamo abbassare l’attenzione. Ci aspettano due partite, contro Frosinone e Bari, in cui legittimare i grandi numeri che hanno caratterizzato la nostra stagione».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *